06 luglio 2019

Il pregiudizio sugli infermieri, la solita "storia maledetta"




Il pregiudizio. Quello che da anni combattiamo, colpisce ancora. Colpisce quando un paziente assesta un pugno in pieno volto ad un infermiere, quando un giornalista non si cura a dovere del potere delle parole, quando il web diventa campo di battaglia per sfide a singolar tenzone in cui a perdere, in ogni caso, è la dignità umana prima ancora che professionale. Il pregiudizio colpisce quando si tenta di ammucchiarlo come polvere sotto il tappeto, affossa quando si nasconde la testa sotto la sabbia.

Infermieri incastrati tra orgoglio e pregiudizio

Che il pregiudizio sugli infermieri serpeggi ancora praticamente indisturbato lo ha dimostrato – ultima solo in ordine di tempo – la giornalista Franca Leosini, che nella sua incalzante intervista ad Antonio Ciontoli sul caso Vannini ha tenuto a precisare che quella arrivata con l’ambulanza a soccorrere Marco era solo un'infermiera, non un medico e perciò non aveva un titolo sufficiente per capire che il ragazzo non era stato ferito da una punta di pettine.
(Già, perché gli infermieri, a detta di certi cronisti, servono solo a fare il giro di routine nei reparti per somministrare la pillolina sempre uguale tutte le mattine).

Una frase che ha fatto accapponare la pelle a chi, come noi, vive la professione e ogni giorno lavora duramente per rubare centimetri di terreno al pregiudizio che dall’esterno – così come anche da alcune fronde interne – mina la credibilità costruita negli anni.

Una frase che la stessa giornalista si è sentita in dovere di ribadire una seconda volta di fronte alla titubanza di Ciontoli che, ad un tratto, è parso quasi rammaricato per non aver usato come strategia difensiva questa stessa tesi. Ma lui, che forse cercava un complice (non sappiamo spiegarci in altra maniera la sua scelta di confessare il colpo di pistola solo una volta arrivati al PIT), sembra essere stato vittima del suo stesso pregiudizio.

Un’infermiera di 118 – che pure si era resa conto delle incongruenze tra lo stato di salute del ragazzo e le informazioni che le venivano date dai Ciontoli - non gli è parsa “abbastanza”. Che è stato uno sparo lo ha confessato solo al medico (ma il complice Ciontoli non lo ha trovato. Ha trovato professionisti, che ha depistato finché ha potuto).

E allora un’ipotesi, la mia ipotesi, è che ad accomunare Ciontoli e la Leosini sia proprio questo: il pregiudizio. Un po’ come quando al triage di un Pronto soccorso un paziente pretende a tutti i costi di trovare un medico e non un infermiere, calpestando anni di ricerca, studio, evidenze, formazione continua. Calpestando leggi dello Stato e la dignità di persona, aggredendo e minacciando professionisti che ora vanno al lavoro con la paura. E con le ossa rotte.

Un po’ come quando basta andare a braccetto con la tecnologia per diffondere sul web video artefatti con il solo intento di calunniare una categoria intera o come quando serve trovare dei capri espiatori per le condizioni indecenti in cui versano certe realtà ospedaliere.
Si cavalca così facilmente, il pregiudizio. È così facile, che nemmeno ci si accorge di quanto si avvelenino le coscienze con parole che si sedimentano nella memoria collettiva come macigni e che restano come marchi indelebili.
Accade questo, quando invece quello che dovremmo fare tutti – professionista con cittadino, cittadino con professionista, professionista con professionista – è integrarci.

Non necessariamente fondersi, ma integrarsi. Perché altrimenti sarà un po' come se le nostre scelte dipendessero sempre dagli altri, quelli che incalzano il pregiudizio. E questo non ce lo possiamo permettere, non più.

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