di Repubblica.it;
Sono le due di notte e l’inferno sembra sceso qui, al reparto 5A3 del San Giuseppe di Empoli. Eppure questo è solo il primo dei gironi, il più sopportabile di tutti: una signora chiede dell’acqua, le infermiere da fuori la sua stanza le urlano che mancano dieci minuti alla fine della terapia, e che potranno vestirsi con lo scafandro solo fra un po’, perciò dovrà pazientare ancora con il casco dell’ossigeno; un signore è in preda alle allucinazioni e vaneggia contro il soffitto, parlando a qualcuno al piano superiore; un altro bestemmia in dialetto, e poi c’è chi si lamenta o chiede aiuto invocando Maria; chi tossisce in continuazione senza riuscire a parlare, mentre qualcuno viene portato in rianimazione perché qualcosa non va.
E poi ci sono io che ho paura di morire. Che quella, la paura, ce l’ho da un anno, o meglio ad ogni bronchite, ma adesso ha raggiunto il suo massimo picco. Così cerco di non pensarci ma ci penso comunque, perché la tosse si è calmata ma non i pensieri peggiori. Perciò scrivo queste righe sulle note del telefono, per urgenza e per bisogno come faccio sempre: anche ora che mi sembra tutto impossibile, lontano e confuso. Tutti i progetti di lavoro e di vita, di famiglia e amicizia, scomparsi sotto il peso che mi schiaccia il petto, incapace di espandersi, tra costole e vertebre che prendono fuoco. Perciò scrivo, in questa prima tregua, perché soffrire per niente non ha mai senso, e allora diamogli forma a questo dolore e facciamone qualcosa. Sempre e comunque, finché si può.
Sono le due di notte e i ruoli si sono invertiti. I malati, ridotti a numeri e grafici nei servizi dei tg, ora tornano ad avere una loro identità, una vita da curare in modo individuale, con pazienza e amore da parte del personale. Un’attenzione tanto costante quanto anonima, sin dal pronto soccorso: sulle tute sterili di chi combatte in prima linea non ci sono più i cartellini con foto tessere, nomi e cognomi, ruoli e gerarchie. Il Covid ha annullato anche questo, ogni cenno alle storie di OSS, infermieri e medici, tutto ciò che mi permetterebbe di ringraziarli, un domani, incontrandoli per caso, per strada o al cinema, a fare la spesa o al ristorante. Dove ritorneremo, molto presto, se li aiuteremo in questo sforzo collettivo soprattutto in queste feste. Oggi che loro sono tutti uguali, bianchi da capo a piedi, coi soli occhi scoperti ma appannati da una visiera di plastica, perché non c’è da perdere tempo e l’unico spazio è quello per l’azione, rapida e decisa, anche se è inverno ma fa un caldo bestia lì dentro.
Perché l’inferno è sceso al San Giuseppe, ma qualcuno continua a non voler capire. Il mare di scetticismo non si arresta, anzi si riversa attraverso di me e ciò che sono: “Se si è ammalato Iacopo che non usciva da febbraio... Se lo hanno contagiato i suoi genitori che sono sempre stati attenti... Se solo il babbo andava al lavoro e a fare la spesa... Se non hanno mai fatto vita sociale e si sono isolati in casa... Allora tutto ciò che ci viene richiesto, tutti i lockdown generalizzati e le chiusure dei locali, le mascherine da indossare e le norme igieniche imposte... Sono inutili o inefficaci, perciò tanto vale tornare a vivere come prima, e rimettersi alla sorte se davvero esiste un contagio”.
Lettera di Iacopo Melio